Guglielmo
All’asilo – me ne rammento con vividezza – c’era la regola che si poteva andare in bagno uno per volta.
Ugualmente mi sovviene che trovavo questo divieto abbastanza strambo: infatti avevo appurato che le maestre consentivano che uscissero due bimbi assieme se però uno di loro diceva di dover riempire «la bottiglietta».
Che, appunto, molti avevano con sé ed era semplicemente la loro scorta d’acqua.
Ricordo poi due compagni di classe: uno si chiamava Francesco, l’altro Guglielmo. Li ricordo perché a quattro anni già sapevo scrivere e, in malo modo e con una grafia stentatissima, buttavo su carta qualche pensierino: tra questi, avevo citato i loro nomi.
Conservo ancora i quaderni, c’è scritta roba molto semplice tipo: «oggi ho giocato con Francesco».
Però mi si illuminano gli occhi nel constatare che gli errori di ortografia erano fin troppo pochi per chi non aveva frequentato ancora la prima elementare.
Ecco, Guglielmo mi era simpatico. E, quando chiese di poter riempire la famigerata bottiglietta, domandai il permesso di andare in bagno. Non saprei dire perché ma sono certo che non ne avessi davvero bisogno.
Mi abbassai le mutandine, Guglielmo mi vide, scandì qualcosa che non riesco a ricostruire con precisione (mi sembra che iniziasse con: «hai mai…?») e mi toccò con le mani, forse per qualche decina di secondi o più, proprio lì.
Ho cancellato dalla memoria altri dettagli di questa storia ma non che, quando ne parlai a casa, scoppiò il finimondo.
C’era rabbia e disperazione nelle parole dei miei e questi sentimenti inaspettati mi spaventarono; mi sembra dovetti promettere, riluttantemente, di non rivolgere più la parola a quel bambino.
Fu un episodio che un po’ mi sconvolse, magari perché non ci avevo capito un bel nulla.
Però la foto di quella classe, qualche tempo fa, mi è capitata tra le mani ed ho trovato sul retro un elenco di nomi. Tra di essi avevo scritto: «Guglielmo, quello che m’ha toccato il pipì».