Lettera a mia madre
L’altro giorno ti ho sentita borbottare: «Me l’aveva detto quel signore, io andrò direttamente in paradiso».
Così, in modo un po’ indisponente, ho insistito. Volevo sapere chi ti conoscesse così bene da racchiudere la verità in poche righe.
Ma alla fine non importa. Lo so anche io. È quanto trapela da quello che mi hai sempre raccontato sulla tua vita.
Non hai avuto una mamma, tu. Una mamma senza mamma: non è forse una contraddizione in sé e per sé?
Ovviamente, per essere precisi, bisogna dire che l’hai perduta quando avevi tre anni, ne hai osservato il feretro percorrere le strade della tua città (che è anche la mia città), e poi in un attacco di disperazione, giunta al cimitero, hai iniziato a scavare con le mani nude per tirarla fuori.
Ma poi sei stata cresciuta da una sorella di tuo padre, che io ho conosciuto. E anche e perfino tuo padre non ha potuto starti vicino, poiché si è risposato.
Quindi, essenzialmente, ti hanno molto trascurato negli anni più importanti: se da bambina bagnavi il letto — racconti — la sera dopo lo ritrovavi ancora umido.
Però per dispetto ti sei impegnata in modo strenuo: ogni tanto confessi che ti c’è voluta molta fatica, perché — dici — non sei intelligente e impieghi tempo a capire le cose.
Ma con perseveranza hai raggiunto una laurea in matematica a pieni voti: sei stata tra le prime ad interessarti di una materia che essenzialmente era l’informatica in nuce; così, quando tiri fuori le tue schede perforate, io ti guardo con un orgoglio più acceso.
Ritornando a te, mi riferisci di tante persone che t’hanno maltrattata, e di tante disgrazie che t’hanno segnata la vita. Ti sei rialzata dopo ciascuna di esse con una indomita rettitudine ed una purezza esemplare.
Invece tu hai accudito i tuoi affetti con amore, nient’altro che quello. Per anni ad esempio ti svegliavi più volte ogni notte per curare mia nonna che aveva avuto un ictus. E poi hai badato a me, soprattutto a me.
Mi hai letto infiniti libri, corretto innumerevoli scritti infantili, con pazienza abbiamo giocato assieme e m’hai spiegato certosinamente la matematica e la fisica.
Questi infiniti modi in cui mi hai voluto bene sono stati indispensabili per la mia crescita. Ed io non ti ho mai detto che hai un talento particolare nel rendere i concetti più complessi accessibili a chi conservi ancora un minimo di buona volontà.
In summa, però, hai amato, amato immensamente.
Ed oggi, automaticamente, indefessamente, inconsapevolmente, continui a industriarti in casa: ogni tanto sospiri ricordando i terribili momenti passati del mio episodio psicotico (ovviamente era un episodio psicotico!) e poi quelli dei farmaci, quando hai detto piangendo di non esserti «mai sentita così disperata».
E allora per un momento vorrei tornare a diversi anni fa quando una infermiera, venuta a visitarci, sentenziò:
«Signora, grazie a lei questo bambino crescerà con un ottimo esempio».
Sì, proprio quello che ho avuto.